Dal Design Thinking al Design Behaving

Perché la gran parte dei processi di innovazione, nonostante l’applicazione onesta e minuziosa dei migliori approcci al Design Thinking, fallisce miseramente? La causa è da attribuire ai budget, al tempo, alle persone? È una questione di processo?

Sin dalla sua introduzione nel contesto aziendale e delle Business School (grazie a molti ricercatori e practitioner, tra i quali spicca Tom Kelley di IDEO), il Design Thinking (DT) ha aspirato a essere il processo universale di riferimento per quanti vogliano fare innovazione attraverso il design.

È innegabile che il DT abbia superato la prova del tempo, almeno per quanto riguarda elementi, considerati pilastri nell’ambito dello sviluppo di prodotti e soluzioni, quali:

  1. il ruolo centrale degli utenti/clienti e la necessità di ascoltarli e di osservarne i comportamenti;
  2. l’importanza del “prototipare” qualcosa di cui le persone possano fare esperienza, di modo da consentire la raccolta di insight sul valore di quanto generato.

Tuttavia, nonostante i molti successi raccolti, il DT è divenuto presto oggetto di critiche da parte delle fonti più disparate, principalmente per il suo essere da molti applicato come una rigida cornice di blocchi formali. Stranamente, i critici hanno dedicato più tempo ai processi e agli strumenti che al ripensamento (in ottica di design) di COME il processo possa essere implementato.

Crediamo sia giunto il tempo di smetterla di forzare i “non designer” a pensare “alla maniera del designer”, e far sì che semplicemente possano “comportarsi da designer” — dove per comportarsi intendiamo operare in connessione a una realtà e al suo contesto, avere un approccio esperienziale, mantenendo uno sguardo il più possibile aperto e curioso.

Risale al 2004 la rappresentazione grafica del processo del design, semplice ed elegante, proposta dal Design Council e nota come Double Diamond (DD), il cui valore sta principalmente nell’esplicitazione dell’alternarsi dei pensieri divergente e convergente; facendo riferimento alla rappresentazione, si nota come questa comunichi una netta separazione tra le fasi in una sequenza lineare.

Double Diamond (Design Council, 2004)

Interpretiamo come un segnale importante la scelta dello stesso Design Council, a distanza di quindici anni, di ricontestualizzare il Double Diamond all’interno di un quadro più ricco e ampio, che prende il nome di Framework for Innovation

Questa scelta, con la quale concordiamo totalmente, riconosce la complessità alla base del processo e cerca di collocare il DD in un contesto diverso e più ampio: il processo in sè non è abbastanza!

Framework for Innovation (Design Council, 2019)

Laprima sostanziale modifica riguarda la “linearità” del processo — il percorso che porta dalla sfida al risultato ha una natura iterativa, caratterizzata dalla libertà di muoversi avanti e indietro tra le fasi, che consente di riformulare la sfida in funzione degli elementi raccolti lungo il processo stesso.

Abbiamo sempre considerato questo movimento iterativo, ciclico / a spirale come una caratteristica fondamentale, non negoziabile del processo; in sua assenza, viene meno tutto il potenziale legato alla scoperta: un po’ come partire da un’idea e semplicemente provare a realizzarla al meglio raccogliendo il contributo di alcuni utenti, il che suona come l’equivalente del porre delle domande chiuse.

Iterare significa apprendere (non è un caso che il Team Learning rientri tra le 5 Discipline di Peter Senge), ovvero essere in grado di tenere conto di nuovi elementi emergenti all’interno di un processo di continua ricerca e scoperta.

Sfortunatamente, tra quanti hanno applicato il Double Diamond, molti si sono limitati a un’esperienza che ricorda una corsa a perdifiato, rinunciando — più o meno consapevolmente — alla possibilità di tornare indietro durante il processo per rielaborare e perfezionare la sfida — pur di giungere il prima possibile a una soluzione. È fantastico vedere finalmente riaffermato il valore dell’iterazione da parte di un’Istituzione così autorevole, valore che probabilmente la rappresentazione grafica del DD non rifletteva in modo abbastanza chiaro.

Laseconda sostanziale modifica è la riconsiderazione delle interazioni tra le persone coinvolte nel processo, allo scopo di garantirne il più vasto coinvolgimento per tutta la sua durata. Molte aziende e team impegnati in sfide progettuali devono fare i conti con lo scemare della partecipazione lungo il processo. Molti dei metodi applicati costringono le persone in ruoli definiti e fissi, spesso altamente passivi o marginali: questo non favorisce una reale partecipazione, determina il venir meno dell’impegno, l’emersione del “group thinking” — conseguenze letali sulle intuizioni e l’apprendimento.

Anche in questo caso riteniamo che la responsabilità non stia nel processo, bensì nell’applicazione di una serie di metodi e pratiche esclusivamente mirati a chiudere una fase per dare spazio alla successiva, con un approccio “sprint”.

In sostanza, guardiamo al nuovissimo Framework for Innovation come a un’esperienza di team learning, un “respiro” scandito dall’alternarsi di divergenza e convergenza, un flusso in cui tutti possono sperimentare e condividere sentendosi appieno responsabili del processo stesso.

Laterza sostanziale modifica riguarda l’accento posto sulla Leadership, che spesso viene semplicemente intesa come approvazione e supporto della sfida da parte di qualcuno che ne abbia autorità: un’accezione vera, ma abbastanza banale, perché è ovvio che tempo, costi, esperimenti e assunzione di rischi devono essere consentiti e incoraggiati, evitando ogni forma di “cultura della colpa”.

Tuttavia, riteniamo che, qui, il riferimento sia alla “leadership condivisa”, quella che dovremmo vedere prosperare in uno sforzo di co-creazione davvero partecipativo. Un sistema può giungere a una co-creazione vera, sostanziale, quando tutte le parti interessate seguono continuamente una conversazione profonda e ogni partecipante condivide la responsabilità della sfida di innovazione.

Pensiamo che la rigida separazione tra convergenza e divergenza debba essere messa da parte, per dare spazio a un approccio più articolato alla sfida, che permetta l’emersione di insight più ricchi e sfaccettati. Forse l’ostacolo principale a questa dinamica deriva dalla confusione legata all’impiego dei termini divergente/creativo e convergente/giudicante: questi rappresentano categorie cognitive, non fasi rigide — divergenza e convergenza sono separate in una “istantanea” del processo, ma nel “film” la transizione tra le due avviene naturalmente e liberamente in entrambe le direzioni come nel ciclo di inspirazione/espirazione.

Molte sfide di design, per la tensione a trovare il prima possibile una domanda di progetto — quell’”How Might We” che permette di passare dallo spazio di definizione del problema a quello di ricerca delle soluzioni — giungono a scoperte scarsamente empatiche. In realtà è auspicabile — all’inizio di una sfida di innovazione — non avere alcun indizio di quale potrebbe essere la domanda di progetto e definirla iterativamente attraverso un processo partecipativo di osservazione e ricerca di senso.

La vera essenza del processo sta nell’ambire a coinvolgere tutti i partecipanti in un flusso iterativo, paragonabile a un “respiro”, allo scopo di enfatizzare l’apprendimento e arricchire e consolidare il trasferimento e la creazione di nuova conoscenza — nulla cambia se si sta lavorando alla scoperta e definizione della sfida o si è giunti alla fase di test di un prototipo.

Anche in questo caso torniamo a fare quindi riferimento ai concetti di “Team Learning” di Peter Senge e a quello di “co-creazione” di Otto Scharmer

Aquesto punto, una domanda sorge spontanea: come potremmo noi, in qualità di facilitatori del processo di design, aiutare i team ad applicare il “framework for innovation” garantendo partecipazione, alto livello di coinvolgimento e una leadership di processo realmente condivisa?

Abbiamo recentemente lavorato con Fondazione Golinelli al Progetto ICARO 2020. Durante uno scambio di punti di vista con il Project Manager della Fondazione Valerio Pappalardo, Valerio ha condiviso con noi i principali elementi di preoccupazione e frustrazione emersi in passato in occasione dell’implementazione del processo di DT in progetti di innovazione sociale con protagonisti studenti universitari. Durante la lunga e intensa conversazione con noi, Valerio ha chiaramente identificato i principali problemi relativi all’implementazione del DT — la riduzione della partecipazione con l’avanzare del processo e una scarsa ownership di processo — e ha convenuto che le cause profonde di questi problemi possano essere ricondotte a una mancanza di engagement e di leadership condivisa.

La soluzione da noi proposta ha comportato un ripensamento del modo in cui i partecipanti fanno esperienza del processo di Design Thinking. Facendo ricorso alle Liberating Structures, agendo sui vincoli di spazio e tempo, abbiamo creato le condizioni ottimali affinché prendessero vita conversazioni arricchenti e, al contempo, affinché contenuto e responsabilità risultassero equamente distribuiti tra i partecipanti.

Il nostro lavoro non si è esaurito nell’aggiunta di una serie di metodi — ci siamo concentrati sul come fare più che sul cosa fare — avventurandoci nello spazio del meta-design, il design del processo stesso di design. Per tornare all’esempio del nostro Cliente, abbiamo utilizzato un’applicazione flessibile (multipla/iterativa) di diverse LS, dando vita a una stringa caratterizzata da:

  1. Appreciative Interviews: sono un ottimo punto di partenza, perchè orientano la predisposizione del team verso ciò che “ha funzionato” in altri contesti, più o meno correlati alla sfida che deve affrontare. I partecipanti condividono storie di successo che hanno sperimentato, prima in coppie, poi in gruppi di quattro (ciascuno deve raccontare la storia ascoltata dal proprio partner) — per poi iniziare a lavorare su ciò che le storie hanno in comune, alla ricerca dei pattern di successo sottostanti. L’attività permette di aumentare il coinvolgimento perchè i pattern emergono da diverse storie personali, spesso riferite a contesti alternativi o simili;
  2. User Experience Fisbowl (UEF): una versione adattata e compatta di vari metodi di facilitazione noti genericamente come “Circle”, consente a un gruppo di 5/6 persone direttamente coinvolte nel contesto — sedute in un cerchio — di far luce sulle loro esperienze, attraverso una conversazione aperta e senza interrruzioni (spesso utilizzando un “talking stick”) durante la quale condividono le loro storie. Questo gruppo costituisce il cerchio interno — tutti gli altri partecipanti si siedono in un cerchio esterno, attorno a quello interno, e ascoltano profondamente in silenzio annotando le domande che vorrebbero porre al cerchio interno. Non deve esserci dialogo fra i due cerchi: questo è importante per assicurare che le domande siano generate in base a ciò che si ascolta. Alla fine dello storytelling, le domande del cerchio esterno vengono passate, scritte su carta, al cerchio interno che decide, in gruppo, come e in che ordine rispondere. Il processo aiuta a ridurre il tipico bias di molti intervistatori: le domande sono una conseguenza di storie “presunte” anzichè reali/ascoltate. Si può facilmente immaginare lo straordinario livello di informazione e comprensione ottenibile praticando diverse sessioni di UEF, per rinforzare l’iterazione di pensiero divergente/convergente.
  3. What? Now What? So What? (aka W3): è forse il metodo migliore, tra quelli che abbiamo utilizzato, per rivedere le esperienze attraverso le storie (che sono l’oggetto dell’UEF) e procedere con l’individuazione di possibili azioni. L’intero design team — diviso in gruppi di 5/7 persone — dà senso a quanto accaduto/ visto/ sentito/ provato e immagina uno stato futuro — indipendentemente dal fatto che il passaggio successivo sia una domanda HMW o una sorta di “prototipo esplorativo”. Il valore di W3 sta nell’assicurare che un chiaro processo di ricerca di senso porti senza difficoltà a una altrettanto chiara definizione della sfida di design.

In sintesi, si possono usare diverse iterazioni di UEF per generare dati, informazioni e feedback su una specifica sfida, per passare poi a W3 per “fare il punto”, assicurando una comprensione condivisa e una prospettiva ampia. A questo punto si può procedere allo sviluppo/ideazione, costruendo un prototipo, oppure optare per un ritorno alla scoperta/definizione per comprendere più a fondo.

Abbiamo lavorato con un Gruppo di 40 studenti selezionati per il Progetto ICARO 2020 — il feedback dei partecipanti è stato estremamente positivo — tutti si sono sentiti parte di un gruppo che lavorava in un’atmosfera positiva e “connessa”, intensa, con tempi chiaramente scanditi, mai noiosa o estenuante. Il Project Manager è rimasto impressionato dal livello di consapevolezza della sfida ottenuto in tempi così brevi.

Alle prese con lo User Experience Fishbowl

Le Liberating Structures offrono altri strumenti di grande efficacia per affrontare queste sfide — ad esempio:

  1. Impromptu Networking: per stabilire rapidamente, sin dall’inizio, un insieme di “aspettative” del Gruppo di stakeholder;
  2. Wicked Questions: per riuscire ad affrontare I contesti conflittuali e i bisogni contraddittori che possono tipicamente emergere durante la fase di sviluppo.

Pensiamo sia giunto il momento di dare al coinvolgimento e alla leadership condivisa il ruolo che meritano nei processi di design, il momento per i facilitatori di processo di mettere a frutto il sorprendente potere delle Liberating Structures.